Storie di violenza domestica: la testimonianza di Fernanda e il supporto di SOS Villaggi dei Bambini

In Italia sono oltre 400.000 i bambini e i ragazzi che assistono a episodi di violenza dentro le mura della propria casa. L’esposizione del minorenne alla violenza perpetrata all’interno delle mura domestiche da un genitore nei confronti dell’altro o di un fratello o sorella, influisce in maniera negativa sul suo stato di benessere dal punto di vista dello sviluppo fisico, cognitivo e comportamentale.
Oggi pubblichiamo la testimonianza di Fernanda, una donna che, in seguito alla morte del marito, inizia a convivere con un uomo che sente possa aiutarla nel gestire l’organizzazione familiare. Presto si rivela essere un uomo molto possessivo, geloso e violento. Segue ogni suo movimento, la chiama al lavoro più volte ogni giorno per controllare che si trovasse lì. La accompagna e la va prendere. Mostra gelosia anche sul passato della donna (non si possono fare riferimenti al padre dei bambini), sulle sue amicizie e la porta a tagliare i ponti con la sua rete. Dopo un anno, anche in seguito alle minacce di morte, Fernanda, soprattutto per l’incolumità dei suoi figli, contatta il servizio tutela minori e da lì si muovono i servizi e le istituzioni. A velocizzare l’intervento, l’allarme derivante dalla presenza in casa di armi. Spinta dalla volontà di proteggere i suoi figli, Fernanda viene accolta nel Villaggio SOS, dove in breve tempo ritrova la tranquillità e il tempo per ritornare alla sua vita quotidiana con i suoi bambini.
Oggi Fernanda è una donna e una mamma felice e condivide la sua storia per far sì che altre donne nella sua situazione possano capire che non sono sole, che devono chiedere aiuto per se stesse e i loro figli.
Ecco il racconto completo. “Dopo aver vissuto il lutto per mio marito ho conosciuto quest’uomo. Il pensiero di avere qualcuno su cui appoggiarmi per l’organizzazione della famiglia ha prevalso e a breve è venuto a vivere a casa nostra. Presto si è rivelato per quello che era. Ricevevamo maltrattamenti verbali e fisici. Bestemmiava, vivevamo in continua tensione per paura che lui scattasse. Per qualsiasi motivo: perché i bambini non mangiavano l’insalata, perché non lo chiamavano papà (e alla fine lo hanno fatto senza nemmeno protestare), perché le posate erano messe male. Per niente. Non si poteva parlare del papà dei bambini, il nostro passato era da cancellare per lui. “Prima o poi ti ammazzo. Non mi servono le armi, le mie armi sono queste, indicando le mani e mettendomele al collo”. Queste le parole che ero costretta a sentire. Vivevo in una nebbia, ero confusa. Le cose sono diventate chiare con il tempo. L’ho sconfitto con il silenzio. Nell’ultimo periodo non reagivo più e ho deciso di usare il registratore del cellulare per avere delle prove. Ho registrato i suoi deliri e questo mi ha aiutato a salvarmi.
Lo mantenevo, ho fatto un prestito spinta da lui e ha speso tutto. Eppure venivo trattata così.
Non voleva che io frequentassi amici maschi, addirittura che lavorassi con uomini (impossibile!). Era molto chiuso, mi aveva creato terra bruciata intorno. Se qualcuno mi chiamava dovevo rispondere mettendo il viva voce, lui doveva sentire chi era e cosa ci dicevamo. Non potevo coltivare alcuna amicizia. Era instabile.
C’è un momento in cui scatta dentro di noi qualcosa e dici “BASTA, non è giusto. Adesso devo fare qualcosa.”
Il primo tarlo me lo aveva messo la pediatra che aveva notato degli atteggiamenti molto bruschi del mio compagno ,un giorno in cui aveva portato i bambini, mentre pretendeva che fosse la pediatra a venire a casa. La pediatra mi aveva detto “Immagino come tratterà lei”. Da lì ho iniziato a pensare a come fare per evitare che le cose peggiorassero e arrivassero magari un giorno le maestre a dirmi “I suoi bambini oggi piangevano dicendo che il papà mette le mani addosso alla mamma” con il rischio che mi togliessero pure i bambini.
Mi sono mossa pensando ai bambini. Era il 22 novembre 2016 quando ho chiamato il servizio tutela minori e spiegato che non potevo recarmi nei loro uffici perché vivevo segregata. Il mio compagno mi portava e mi veniva a prendere al lavoro, non avevo spazi e momenti in cui ero senza di lui, se non al lavoro. Sono venuti i servizi durante il mio turno in ospedale dove ho il ruolo di infermiera.
La mia rete di sostegno più importante è stata quella del lavoro, la mia capo sala mi ha consigliato di rivolgermi alla polizia dell’ospedale. Poi sono andata in questura: non riuscivo ad andare da sola, quindi un giorno durante il lavoro, di nascosto dal mio compagno, con il supporto dei servizi e coperta dalla capo sala, mi sono recata a sporgere denuncia insieme alla persona di riferimento dei servizi.
Sono tornata al lavoro e lui nel frattempo mi aveva cercata più volte, come faceva ogni giorno, per essere certo che fossi davvero a lavoro.
Dopo la denuncia i poliziotti sono andati a casa e gli hanno chiesto di mostrare le armi – io stessa avevo detto erano in casa (erano un’eredità di mio marito). Le armi sono state il motivo attraverso il quale la questura si è potuta muovere immediatamente. Nel pomeriggio sono venuti a prendermi i poliziotti in borghese mi hanno accompagnata a prendere i bambini e poi a casa a prendere le cose necessarie per spostarmi in una struttura protetta, il Villaggio SOS.
Non avevo idea di cosa fosse. Non ne avevo sentito parlare, non ne avevo mai avuto bisogno. La prima sensazione è stata di essere in una prigione. I primi giorni sono stati difficili. Mi stava tutto un po’ stretto ero impaziente di tornare alla mia vita. La sera pensavo. Piangevo per il dispiacere, per la sensazione di fallimento. Però mi dicevo di portare pazienza.
Mi pesava che i bambini perdessero giorni di scuola, ma le maestre e la preside sono state comprensive e abbiamo sempre avuto i compiti a casa.
Piano piano mi sono affidata. Proteggono te e i bambini, perché sono loro da aiutare di più.. non hanno la forza di reagire.
Sono rimasta al Villaggio SOS fino all’8 dicembre e nel frattempo la questura ha ottenuto un’ordinanza restrittiva. È stato allontanato ed è tornato nella sua città di origine. Una volta partito siamo potuti tornare a casa, riprendere la nostra quotidianità, fare la pasta, le lavatrici, vedere un film insieme. Sono tornata al lavoro. Ho cambiato numero, abbiamo cambiato la serratura. Abbiamo iniziato una nuova vita. Lui ha continuato a insultarmi su Facebook e ho dovuto bloccare il mio profilo. Oggi è libero, al momento la condanna di un anno di carcere è in sospensione fino a quando non dovesse essere recidivo e allora si sommerebbero le condanne.
Oggi mi sento una donna nuova. I miei bambini stanno bene. Possiamo parlare del loro papà, prima vietato dal mio compagno per mancanza di rispetto nei suoi confronti.
Io uscivo dal lutto per mio marito e questa persona sembrava così innamorata e io avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a organizzare la vita quotidiana. Purtroppo invece di pensare che potevo farcela da sola ho pensato che sarebbe stato utile avere un uomo accanto e lui ne ha approfittato.
Spesso mi sono chiesta “Ma come ho fatto a fare entrare in casa mia questa persona. Dopo tutto quello che ho fatto per essere quello che sono, per avere i miei figli, il lavoro che amo”.
La vivo come un’esperienza, brutta certo, ma ti forma, ti fa crescere. Ti fa capire che non sei sola. Ci sono strutture per sostenerti. Ognuno ha i suoi tempi e i suoi modi. Io sono partita dal servizio di tutela minori, poi la questura ha contattato l’antiviolenza e così c’è stato il collegamento con il Villaggio.
Non si immagina cosa ci sia qui al Villaggio. Da fuori sembra un centro diurno, una ludoteca. Qui invece ci sono persone che si occupano di te, che ti proteggono e ti aiutano a vedere oltre, a capire che è utile aspettare, avere pazienza e speranza. Fidarsi, affidarsi. Fanno tutto per tutelarti.
Mi sentivo serena, potevo preparare da mangiare, i miei figli hanno interagito tanto con gli altri bambini anche se in poco tempo. Anche io ho legato con altre mamme. È stato proprio bello.
Quando vivi qualcosa di negativo e la superi, ti arricchisce e non puoi che ricordarlo con piacere. Certo sarebbe stato meglio non averne bisogno, ma per fortuna ci sono posti come questo. Io credo molto nel Villaggio SOS.
Oggi i miei bambini sono sereni, sono bambini equilibrati. Hanno seguito il programma di sostegno psicologico e oggi vedono quel periodo come passato.
Adesso hanno bisogno di recuperare i ricordi del padre, lo spazio con me. Abbiamo fatto finalmente una vacanza insieme, siamo stati benissimo. Devo assecondare di più le loro richieste di recupero del passato.
Io oggi mi sento felice e desidero far sapere che si può stare bene, tornare ad essere serene noi e i nostri figli.
Vogliatevi bene, proteggete i vostri bambini. Prima o dopo arriva il momento in cui dici: “BASTA! Perché devo ancora subire tutto questo? Cosa ho fatto di male?”. E poi i bambini. Siamo noi mamme a dover intervenire. I bambini non devono pagare. Dobbiamo proteggerli. Arriva qualcuno che tende la mano, magari la prima volta hai paura ma la seconda decidi di andare avanti.
Pensa: “perché devo soffrire così? Cosa ho fatto? Non sono una cattiva persona? Non mi merito tutto questo”. E se si presenta un’occasione coglila, chiama, cerca un modo, un canale, una persona, una struttura. Non bisogna vergognarsi, mai. Non è colpa nostra, non può esserlo mai, in nessun caso.
Faccio il tifo per tutte le donne, per le loro amiche, i loro vicini, i loro parenti.. tutti coloro che possono tendere la mano. Sono stati i miei vicini a segnalare che sentivano delle urla la prima volta che la polizia è entrata in casa mia, ma in quell’occasione non ho avuto il coraggio di raccontare la violenza”.